Per la prima volta Luciano D’Alfonso, oggi presidente della commissione Finanze del Senato, accetta di parlarne in una intervista a cuore aperto con il Messaggero
I suoi ultimi 15 anni sono stati segnati da molti successi elettorali, ma anche da una costante attenzione da parte delle Procure. Crede anche lei che esista un uso politico della magistratura nel nostro Paese?
Prima di cristallizzarsi nel successo di una delle parti, il momento elettorale vive sempre di più la dinamica violenta del conflitto. La coppia concettuale amico/nemico prevale ormai sulla leale competizione tra gli agonisti. Questa degenerazione della prassi politica lascia aperte praterie alle invidie, alle gelosie, ai livori.
In questo brodo di coltura non mancano di attecchire talune virulente colonie di soggetti contrattualizzati dello Stato, sollecitate dalla lusinga di promozioni a furor di stampa, se riesce loro di trasformare in impresentabile indagato, magari proprio chi incarna in quel momento un grande favore democratico.
In questi quindici anni ho messo insieme una serie di elementi puntuali su fattispecie di questo genere, raccogliendo documenti, punti di vista, modi di dire, che mi fanno realizzare questa fotografia: ci vorrebbe più serenità da parte di chi è contrattualizzato dallo Stato per l’ordine pubblico, e magari con l’incarico di raccogliere elementi utili a coadiuvare l’indagine di un Pubblico Ministero. Io, purtroppo, ho trovato numerosi elementi di segno contrario. Tant’è che sto pensando anche di scrivere e di produrre una rappresentazione teatrale sul processo ai miei processi, prendendo come bersaglio proprio il lavoro iniziale, quello che, nel codice di procedura penale, si distingue come la fase procedimentale rispetto alla fase processuale. È lì che io ho visto la volontà di far scattare una trappola a prescindere: condotte furbesche, nei casi più genuini, alla ricerca dell’encomio; più viziate quando l’obiettivo era proprio quello della caccia grossa al politico che andava colpito in ogni modo.
La mia consapevolezza sul punto è tale da avermi indotto a presentare un Disegno di legge che secondo me aiuterà a ripristinare tranquillità e serenità, facendo in modo che nella fase delle indagini preliminari, quella che si chiama fase procedimentale, quando vengono sentite le persone informate sui fatti, ci sia l’obbligatorietà della videoregistrazione. Così da impedire alla radice comportamenti viziati nella fase delicatissima della raccolta delle testimonianze, soprattutto nel caso di persone, cui si può far balenare il rischio di divenire da un istante all’altro indagate a loro volta, se magari non si mostrano collaborative.
Tutto questo, però, vale soprattutto per alcuni, per fortuna sono solo una insidiosa minoranza, che svolgono la funzione di polizia giudiziaria, mentre nel caso della Magistratura posso affermare di aver riscontrato sempre un atteggiamento corretto. Solo una volta un Pubblico Ministero mi disse che ero troppo ambizioso e che non condivideva la mia idea di Città, e io gli risposi allora che sarebbe stato meglio per lui candidarsi alle elezioni per portare avanti il suo differente progetto politico, piuttosto che svolgere la funzione inquirente per conto della Repubblica. Di un altro so, per esempio, che parlando con un edicolante affermò che io avevo fatto “un abuso grande come una casa”, solo perché avevo applicato la legge Bassanini a proposito degli uffici di staff. In sostanza dimostrò scarsa conoscenza del diritto amministrativo, ma sono tutti peccati veniali. Nella magistratura ho sempre riscontrato rigore, soprattutto nella fase del processo. Lì le garanzie dell’ordinamento e la professionalità degli operatori del diritto fanno sì che la verità possa emergere.
Ci sono tuttavia molti esempi di leader politici: da Berlusconi a Renzi, a Matteo Salvini, che si sono trovati investiti da un ciclone giudiziario proprio quando erano all’apice del loro consenso elettorale. Solo una coincidenza?
Che in Italia ci sia un problema riguardante la giustizia è fuori di dubbio. Per esempio, il triangolo tra polizia giudiziaria, cronaca giudiziaria di alcuni giornali e le confidenze sussurrate da alcuni Pm ha contribuito, di sicuro, a sporcare la storia politica di importanti figure della classe dirigente nazionale. Però non credo che questo possa mettere in difficoltà la capacità di funzionamento del nostro sistema. Come ricordavo prima, poi arriva il processo e lì il populismo giudiziario non attecchisce, perché non contano veleni e suggestioni, ma prove, dimostrazioni, ragionamento alla luce del diritto. L’antipolitica può trionfare sui social e nei titoli di certi giornali. Difficilmente trova spazio nelle sentenze.
Il magistrato è solitamente il terminale di un’attività giudiziaria e investigativa a cui sono spesso impegnati personaggi nell’ombra: non solo Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza, ma anche apparati dei servizi. Non crede che questo imponente meccanismo di “ascolto”, indispensabile per il contrasto alla criminalità, al terrorismo e alla corruzione, possa tuttavia rappresentare un pericolo per la democrazia quando diventa funzionale ai giochi della politica?
Non credo sia un pericolo per la democrazia, però è vero che ci sono quelli che agiscono “nell’ombra”. Ad esempio, a Pescara anni fa si aggirava una figura chiamata “l’autista”, che faceva da teleferica tra pezzi di polizia giudiziaria, ambienti prossimi ai titolari dell’accusa e alcuni fogli di pagine giudiziarie della stampa locale. In alcuni momenti “l’autista” ha conseguito successi tanto apprezzabili per lui, quanto calamitosi per altri. Nella mia stessa vita hanno avuto un ruolo negativo un autista, un notaio, un giornalista e anche alcuni risentiti del ceto politico.
Non escludo che altri “orologiai” possano in avvenire riprendere a lavorare con dedizione ai miei danni: confesso anzi di essere rimasto sollevato quando è sfumata nel corso di una notte la mia nomina a vice ministro nel governo Conte bis. Ho pensato che in questo modo avrei evitato nuove sarabande. Questo timore mi è tornato quando sono stato eletto Presidente della Commissione Finanze al Senato. L’ho scacciato con un sorriso, sono abituato a dimostrare le buone ragioni che sono alla base del mio impegno pubblico.
Lei stesso ha sempre ammesso di essere insofferente alle “regole” quando rallentano l’azione amministrativa e la realizzazione delle opere. Da sindaco le è capitato di inaugurare la nuova cittadella della giustizia di Pescara nonostante mancasse il certificato di collaudo degli ascensori. Un taglio del nastro che come molti ricorderanno avvenne tra gli applausi dei magistrati presenti alla cerimonia. Non crede che queste sue fughe in avanti rispetto alle procedure amministrative siano un po’ la conseguenza degli avvisi di garanzia accumulati nello studio del suo legale?
Sono l’opposto di quegli amministratori che vorrebbero che ogni loro atto fosse fondato su una norma primaria. Credo, infatti, che compito della pubblica amministrazione sia, invece, quello di riempire la distanza tra la norma primaria e la fattispecie concreta. Purtroppo questo sentire è poco condiviso, e siamo arrivati al punto di dover normativizzare quasi ogni aspetto di dettaglio dell’attività amministrativa. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
Sul punto, poi, io ho sempre avuto chiaro che un abuso di potere, se realizza un preminente interesse pubblico e naturalmente non uno privato, non può costituire reato. Ho mille situazioni che potrei ricordare: la demolizione dell’ex Cofa, pieno di eternit, dove ogni metro quadrato rappresentava un rischio per i tanti cittadini nuovi, soprattutto bambini, che trovavano lì ricovero abitativo che purtroppo non avevano: io ho assunto quella esigenza come una priorità. Mi si disse che nelle norme tecniche di attuazione del Comune di Pescara mancassero le attività di demolizione, ciononostante io ho proceduto alla demolizione. Ricordo alcuni gaudenti, nella macchina comunale di Pescara, che mi dissero che mi avrebbero denunciato, e credo che l’abbiano fatto perché è una vita che lo fanno, ma gli esiti non ci sono stati proprio perché mancava l’interesse privato in quella demolizione. C’era soltanto un evidente interesse pubblico, non solo sul piano della demo-ricostruzione, ma si toglieva un pericolo e adesso lì c’è uno spazio ritrovato al servizio della Città.
Così anche nel caso della cittadella giudiziaria. C’era una collaudazione parziale per il rischio della caduta di lastre di marmo che rivestivano il palazzo. Ma poiché quelle lastre non avevano le ali degli uccelli e potevano soltanto prendere una discesa perpendicolare, feci adottare delle misure idonee con il distanziamento di varchi e percorsi, mettendo così in sicurezza tutto il personale e gli utenti del Tribunale. In questo modo, quasi imponendomi alle strutture tecniche della Procura e del Tribunale del tempo, ma d’intesa coi loro vertici apicali, si poté aprire una struttura che rischiava di diventare l’ennesima cattedrale nel deserto. Se fossi stato anche io legittimato solo da un contratto di lavoro, probabilmente non mi sarei assunto mai quella responsabilità. La legittimazione morale, elettorale e democratica ha portato in me la voglia di aprire quell’edificio.
Qual è stato il momento più bello e il più brutto di questi 15 anni?
La paura che ho provato dopo avere concorso con molta energia a liberare una ragazza rapita da una setta satanica. Una ragazza di nome Verina, trattenuta a forza contro il suo volere, completamente spianato da una capacità di coercizione psicologica a Padova. Mi ricordo che mi aiutò quel galantuomo di Enrico Di Nicola a prendere contatti con i vertici della Procura di Padova, i vertici della Questura, il capo della Squadra mobile di Salmone e il fratello del Presidente dell’ANM, Abbate, Vice Ministro agli Interni. Caricai una macchina di volenterosi e andammo a Padova per fare esplodere le contraddizioni di quella assurda comunità, che aveva determinato numerosi altri casi di scomparse di persone plagiate in mille modi.
Partii con molta risolutezza, ma il giorno dopo ho avuto molta paura pensando a quello che poteva accadere ai miei familiari. Mi ricordo anche il tentennamento degli avvocati coinvolti rispetto a questa vicenda. Ciascuno faceva il conto del rischio e dei pericoli e teneva la propria attività dentro ad alcuni invisibili millimetri di attivismo.
Ho sempre immaginato la responsabilità politica come una responsabilità che produce coraggio, risolutezza, determinazione, assunzione di responsabilità e cancellazione del pericolo.
L’ho fatto in un caso limite come questo, ma l’ho fatto anche quando ho salvato il Conservatorio Luisa D’Annunzio da un cantiere imbroglio, ereditato quando ero un giovane Presidente di provincia. Chiamai come ispettore uno dei migliori nel giudicare la produzione di cantiere e mi accorsi che avevano cominciato le attività senza avvisare i condomini proprietari delle parti private. Avevo due strade: riconoscere i danni patiti dai condomini per gli appartamenti privati presenti in modo anomalo dentro il Conservatorio, oppure procedere all’acquisto di quegli stessi appartamenti. Era il mese di ottobre, li ho acquistati come Amministrazione provinciale, pur non avendo le risorse nel bilancio. Mi sono inventato l’istituto dell’accordo preventivo, versando una caparra e assumendo l’impegno di definire la parte restante con l’approvazione del Bilancio nel nuovo esercizio finanziario. Dopo avere fatto questo, salvando l’interesse pubblico, mi sono autodenunciato alla Corte dei Conti. Il Procuratore, un gentiluomo rigorosissimo, mi disse che era una procedura non contemplata dall’ordinamento, ma poiché era accaduta poteva essere tollerata dall’Ordinamento in ragione del fatto che veniva tutelato l’interesse pubblico.
Sono stato anche il primo amministratore pubblico a recintare gli spazi carichi di degrado sotto l’Asse Attrezzato, pur non essendo di proprietà della Provincia di Pescara. La rete metallica occorrente fu pagata da un’impresa, la VEMAC, e gli operai mi furono messi a disposizione. Me ne feci carico io come Provincia, visto che il Comune ignorava quella situazione indecente all’ingresso della città.
L’ultimo ricordo è legato al crollo di un ponte sul Tavo, che lasciò orfani alcuni bambini. Io diventai Presidente della Provincia tre anni dopo quella tragedia, e facemmo una delibera come Provincia e la feci ripetere da tutti i comuni della zona della vallata del Tavo per chiedere all’ANAS di assumere Marcello Catena, un signore che si faceva carico di quei bambini rimasti orfani. L’ANAS assunse quella persona. Fu per me una bellissima soddisfazione.
Non crede che il suo avvocato, per altro abbastanza noto, si sia un po’ stancato di vederla nel suo studio?
Non ci vediamo più come avvocato e cliente, ma siamo diventati due inseparabili amici. La cosa curiosa è che questo rapporto di amicizia, nato nella miniera delle assurdità di alcuni processi penali, è stato giuridicizzato. Ho letto in un rapporto di un illustre signore, credo già studente della scuola Radio Elettra, appartenente alla Polizia giudiziaria di Pescara, che puntava proprio alla giuridizzazione di questo rapporto, perché magari un giornalista gli aveva detto all’orecchio, che lo scambio tra me e l’avvocato era la sua difesa, in cambio della mia discrezionalità nell’esercizio del potere pubblico. Non sapendo che in Italia, quando si vincono le cause, paga la Pubblica Amministrazione, di cui ha fatto parte quell’eletto sottoposto innocente a giudizio, la parcella guadagnata dall’avvocato che lo ha difeso nel processo.
Qual è stato il rapporto con la stampa in questi anni?
Un rapporto costruito sul rispetto reciproco e nel riconoscimento della funzione svolta dal giornalismo in Abruzzo. Purtroppo, anche in questo mondo ho riscontrato alcuni segni di un incattivimento soprattutto in un caso, che prima o poi sarà utile che io riveli in tutti i particolari. C’è un telefonino che credo conti centinaia di messaggi di una figura che mi ha contestato il ritardo con il quale ho risposto alle sue chiamate. Ho mancato di immediatezza e sono incappato in un processo civile, in cui senza meraviglia ho riscontrato nuovamente il riconoscimento delle mie ragioni. Mai avrei immaginato che mi si potesse rimproverare qualcosa che in genere fa infuriare i consumatori: la mancanza dello scatto nella risposta.