Dal quotidiano Il Centro
Gentile Direttore, ho accolto volentieri il suo invito a tracciare un’analisi della bozza di riforma
costituzionale presentata dal governo Meloni il 3 novembre scorso. Lo dico subito e con chiarezza: questo progetto normativo non mi piace. Lo ritengo confuso, pasticciato e inadatto a conferire più stabilità alla nostra democrazia, che pure avrebbe bisogno di correttivi. Dal punto di vista tecnico, ci troviamo di fronte ad un tentativo di modifica di tipo puntuale – ovvero mirato a cambiare soltanto alcuni aspetti – laddove sarebbe stata preferibile una revisione di più ampia portata. Ma anche limitandosi a toccare in maniera quasi chirurgica soltanto pochi articoli della nostra carta fondamentale (precisamente i numeri 59, 88, 92 e 94), per il meccanismo di pesi e contrappesi sul quale è organizzata la Costituzione si producono effetti su altre parti della nostra architettura istituzionale.
Nello specifico, verrebbero ristretti gli spazi d’azione attualmente riservati al Presidente della Repubblica e al Parlamento, con un’eterogenesi dei fini che non appare necessaria né apprezzabile. Dal punto di vista politico, la lettura dei cinque articoli fa emergere la natura compromissoria del testo. È noto che – delle tre forze principali che compongono l’attuale maggioranza – quella più orientata verso una forma di governo che vede “una persona sola al comando” sia il partito di Giorgia Meloni. D’altra parte, già nel 1996 il padrino politico della premier, Gianfranco Fini, scandiva lo slogan “Chiari e coerenti per il presidenzialismo”. All’epoca non gli portò fortuna, ma l’impronta ideologica è rimasta.
La Lega non sembra essere egualmente interessata al tema, se non come contropartita per avere in cambio il via libera al regionalismo differenziato. Anche Forza Italia non mostra grande entusiasmo ma ha capito che l’alleato più forte ne sta facendo una battaglia identitaria e quindi partecipa all’operazione con l’idea di ricavarne comunque qualcosa per sé. Dunque abbiamo la Meloni che guida la spedizione, con due compagni di viaggio (Salvini e Tajani) che la seguono più per convenienza che per reale convinzione.
C’è poi la previsione di una legge elettorale che dia il 55% dei seggi in Parlamento alle liste che sostengono il presidente più votato. La ratio della norma è chiara e condivisibile: garantire continuità e stabilità ai governi. L’Italia repubblicana ha avuto 68 esecutivi in 77 anni, con ovvie ripercussioni sulla continuità dell’azione amministrativa e sull’autorevolezza nelle sedi internazionali. Ma nella soluzione prospettata – sottolineano le docenti universitarie di Diritto pubblico Annamaria Poggi e Federica Fabrizzi – “è completamente assente una soglia minima di voti che faccia scattare il premio ed è ictu oculi incostituzionale, non essendovi corrispondenza tra voti in entrata e seggi in uscita”. Con la sentenza n. 1 del 2014 la Corte costituzionale ha infatti stabilito che “l’assenza di una soglia minima di voti per competere all’assegnazione del premio, porta con sé un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.)”.
Per questi motivi, la riforma Meloni-Casellati incontrerà la mia netta opposizione in Parlamento. Cito di nuovo Roberto Bin, quando afferma che chi ha concepito questo disegno di legge “o lo ha fatto per scherzo o manchi dell’abc del diritto costituzionale. O semplicemente pensa che gli italiani siano del tutto stupidi”. Per fortuna non lo sono, e lo dimostreranno in un eventuale referendum confermativo.