Questo decreto legge ha dei limiti e la nostra astensione esprime attenzione sui risultati conseguiti e delusione per la distrazione e disattenzione che pure abbiamo misurato. È arrivato il tempo affinché l’Italia si doti di un codice della ricostruzione. Non è possibile continuare a normativizzare l’amministrazione o ad amministrativizzare la normazione. Facciamo un codice ma non perché abbiamo simpatia per le tipografie che cambiano. Il codice della ricostruzione dà certezza, eguaglianza di trattamento equità nella reazione per quantità e qualità.
Ascoltarsi è la ragione del Parlamento che non è parlatoio. Ci si ragiona, ci si compone con l’intelligenza di tutti e poi siamo arrivati ad avere sempre di più l’ambizione di leggi quadro. Leggi che per esempio oltre a ricostruire le mura, potessero ricostruire anche l’economia, la cultura, la vitalità. Ma le mura ricostruite, senza la vita, sono cimiteri. Noi abbiamo bisogno di ricostruire, le città, le comunità e i territori. Avendo a mente l’immagine di Pavese, sono i comuni che creano appartenenza, identificazione significato, bellezza, allora non bastano le mura.
Uno non sceglie di essere terremotato. Il limite di questo decreto è scritto zigzagando: per alcuni tutto, per altri un po’ meno di tutto e per altri ancora troppo poco. Lo stato deve essere rilevante, adeguato, appropriato, coerente, equo. Noi abbiamo qui il rischio di uno stato zigzagante, un po’ Arlecchino, distratto, che soppesa e non qualifica tutto allo stesso modo, qui parliamo di dolore. Il Partito Democratico la sua parte l’ha fatta. Vediamo se attorno a questo contributo si organizza serietà, convergenza istituzionale in ragione delle quote di dolore che tutti abbiamo vissuto.