Quanto era congruo ieri non lo sarà più domani
La Regione Abruzzo, come tutte le sue omologhe, per dettato costituzionale è un ente di programmazione economica, di fatto privo di fiscalità propria e di capacità di indebitamento.
La strada maestra di cui dispone per approvvigionarsi delle risorse necessarie allo sviluppo dei suoi territori è l’accesso alla programmazione strategica italiana ed europea.
Ben consapevoli di questo, non appena nel 2014 diventammo classe di governo eletta, ci buttammo a capofitto a studiare il dossier della programmazione ereditata dalla precedente gestione, denominata Prisma, un nome in qualche modo emblematico di una realtà rivelatasi illusoria nelle consistenze effettive, e a ricollegarci con le migliori tradizioni della programmazione abruzzese segnata da protagonisti del mondo di ieri come Emilio Mattucci, Franco Madama, Marcello Russo e Bruno Viserta.
Soprattutto fummo subito consapevoli che la nostra condizione di regione in transizione, secondo la classificazione in uso nella regolamentazione comunitaria, ci metteva a rischio nella possibilità di attingere a un livello adeguato di risorse per quello che riguarda i preziosi Fondi di sviluppo e coesione.
Se fosse prevalsa una lettura neutrale ci saremmo dovuti ritrovare tra le regioni che ottengono il 20% delle risorse complessive, a fronte di quelle che possono concorrere all’80%, più un eventuale differenziale da conquistare, come una sorta di misura consolatoria.
Non ci arrendemmo alla tristezza e lavorando con protagonismo nella Conferenza Stato Regioni, nella cabina di regia di Palazzo Chigi, nella Conferenza delle Regioni a Bruxelles e in particolare nell’Ufficio di Presidenza di quel fondamentale organismo comunitario, spiegammo le ragioni dell’Abruzzo, le sue peculiarità economiche e territoriali che motivavano con giustizia il suo inserimento tra le regioni che potevano avvalersi della parte maggiore delle risorse complessive.
La battaglia fu vinta, anche e soprattutto per la disponibilità all’ascolto dell’allora Presidente del Consiglio Renzi e del Ministro della Coesione territoriale Claudio De Vincenti.
La principale questione che ci fu posta era il coinvolgimento di tutti i territori e di tutti i livelli istituzionali, facendo una operazione verità dei bisogni dell’Abruzzo, velocemente, senza piagnistei e paure burocratiche. Cento giorni dopo un episodio di contestazione a L’Aquila culminato in una sassaiola, noi eravamo già pronti, malgrado una articolista, credo disinteressata, scrivesse con enfasi pubblica che non avremmo portato a casa il Masterplan. E, invece, già nel 2016 il Masterplan era una certezza che prevedeva un miliardo e mezzo per gli interventi fondamentali per il rilancio dell’Abruzzo e un miliardo e trecento milioni aggiuntivi per l’agricoltura e le politiche sanitarie. In totale due miliardi e ottocento milioni di risorse comunitarie e nazionali conquistate euro dopo euro per i bisogni e le opportunità degli abruzzesi.
Un fatto oggettivamente straordinario per la consistenza e l’ampiezza degli interventi, di cui si può rintracciare una remota analogia solo nelle azioni realizzate nei decenni precedenti dai gentiluomini che ho citato all’inizio e, più di recente, nel piano per l’edilizia sanitaria messo in campo da Bernardo Mazzocca.
Il resto è stato una tabula rasa, un gioco di luci e di ombre, di cui serbano grata memoria soprattutto alcune agenzie di comunicazione. Vista, anzi, la peculiare vocazione abruzzese, e pescarese in ispecie, alle Norimberga giudiziarie, sarebbe interessante fare una operazione verità su cosa abbiano determinato le programmazioni precedenti a Masterplan Abruzzo.
Credo che la Corte dei Conti avrebbe tutta la competenza istituzionale per svolgere questo compito meritevole, anche per la nutrita e solida consapevolezza di coloro che la compongono nella capacità di rileggere gli atti della pubblica amministrazione.
Entrando nel merito del lavoro che abbiamo svolto col Masterplan ricordo con i padri della programmazione pubblica italiana come Vanoni, Giolitti, Pieraccini, Ruffolo, Manin Carabba sottolineavano che sono tre, sia pure con differenti intensità, le difficoltà maggiori nella decisione pubblica che abbia l’ambizione di essere ben concepita e utilmente fruttuosa.
La prima riguarda la cultura delle priorità, una difficoltà straordinaria in una regione a volte condannata ai particolarismi come l’Abruzzo, nella quale per realizzare un’opera bisogna prevederne due o tre analoghe necessarie a placare esigenze di campanile. Una situazione che in passato ha condannato all’inerzia per la difficoltà a trovare le risorse necessarie a coprire anche le non priorità che non lasciavano il passo alle priorità.
La seconda difficoltà riguarda la stessa provvista finanziaria, sia perché occorre competere con gli altri territori che esigono almeno la stessa attenzione, il che è ovvio, sia perché il nostro Abruzzo è povero demograficamente, e questo spesso smorza la rilevanza delle istanze prospettate a Roma e a Bruxelles.
La terza difficoltà si rinviene sul piano amministrativo, soprattutto nella raccolta dei progetti e dei pareri, e poi nel successivo iter realizzativo che nel nostro paese è notoriamente tra i più complessi sul piano ordinamentale dell’orbe terraqueo, in ossequio al principio che più adempimenti si prevedono e più carte si esigono, e più la legalità è fatta salva.
Volendo fare un esame onesto, possiamo dire che circa le imponenti e irripetibili risorse del Masterplan lasciate a chi è venuto dopo di noi, abbiamo svolto per intero il lavoro relativo alla prima e alla seconda difficoltà, avendo individuato le priorità senza una balcanizzazione dei campanili e conseguito per intero le provviste finanziarie, già nella pancia della ragioneria regionale, e per una buona metà quello relativo al terzo aspetto, avendo ottenuto progetti e buona parte dei permessi, arrivando in alcuni casi anche alla cantierizzazione, malgrado le complessità burocratiche che tutti possono immaginare.
A questo punto accade qualcosa di inimmaginabile: la classe dirigente subentrata alla Regione, coincidente con quella che prima era all’opposizione e che ogni giorno negava l’esistenza stessa del Masterplan e della sua consistenza finanziaria, nei diciotto mesi successivi ha deciso prima di indossare l’abito delle mosche per rivestirsi dei meriti degli interventi previsti (senza nemmeno riconoscere che i loro 1500 comunicati scritti negli anni precedenti non valevano neppure la carta su cui venivano scritti) poi, del tutto inaspettatamente, paventando il rischio di ritardi nella realizzazione, ha deciso una sorta di eutanasia della programmazione, togliendo le risorse.
Non agire per non tardare, sembrerebbe questa l’idea della maggioranza a trazione centrodestra alla Regione.
Naturalmente per compiere questa vera e propria strage del futuro in Abruzzo, ci si è rifugiati dietro al mascheramento di un avverbio: le risorse sarebbero state stornate temporaneamente, in attesa di essere restituite. Se anche fosse vero, e abbiamo ragione di ritenere che vero non sia, notoriamente nella pubblica amministrazione una interruzione progettata di otto mesi, poi ne dura almeno ventiquattro.
Ecco che si prepara un intervallo di tempo sufficiente a mutare significativamente gli indici di valore delle voci economiche nei capitolati progettuali, il che vale a dire che quanto era congruo e ieri non lo sarà più domani, e quand’anche venissero ripristinate le risorse non si potranno realizzare tutti gli interventi oggi previsti, se non con dannosi rimaneggiamenti.
Ma, soprattutto, ricordo che è un acquisto definitivo della scienza amministrativa dai tempi di Cavour che un intervento pubblico senza copertura finanziaria sia nullo sul piano giuridico. Questo è un patrimonio talmente noto e conosciuto da essere tema ambito per prove e verifiche in ogni scuola per adulti in formazione permanente, da Radioelettra al Cepu. Credo che se avessi avuto anche io modo, come i miei nonni, di frequentare la scuola rurale di via pietrara l’avrei imparato anche lì, tra le nozioni fondanti per la cittadinanza.
Per questo non comprendo la ragione di una ecatombe senza precedenti delle speranze di veder riqualificate le aree di risulta a Pescara, di potenziare il turismo invernale sulla Majella, di realizzare l’impianto di irrigazione a pressione nel Fucino, di valorizzare come un polmone di sviluppo urbano l’ex manicomio di Teramo, solo per citare in questa sede a caso alcuni tra gli interventi del Masterplan Abruzzo.
Io non so rassegnarmi e sto consigliando a qualche sindaco che vuole bene alla sua comunità e a tutto l’Abruzzo di fare ricorso al Tar contro la sciagurata delibera 416 del 15 luglio scorso. Sono fiducioso che ancora una volta la giurisprudenza amministrativa saprà generare la saggezza nella genuina interpretazione della norma, per evitare che una eutanasia clandestina sia accolta come una festa nella spensieratezza aperitiva che governa oggi l’Abruzzo.
Voglio comunque rivolgermi al Presidente Marsilio per chiedergli di ripensarci, voglio chiedere al Direttore delle Infrastrutture e a tutti i capi dipartimento della Regione di aiutare il Presidente a comprendere che quell’atto va revocato, perché non è un atto neutrale, non si può fare cassa per il presente sul futuro. Mi rivolgo perché possano intervenire utilmente ai componenti del Collegio di Garanzia Statutaria. Per non lasciare nulla di intentato vorrei chiedere un appuntamento anche a Enzo Scotti, sino a qualche settimana fa presidente dell’Università Link, nella quale il presidente Marsilio avrebbe svolto funzioni di docenza.
Se fosse possibile preferirei avere un confronto diretto con lui, una bella discussione frontale dalla quale far emergere che nulla è perduto: ogni procedura può riassorbire un mese di pigrizia, purché si metta fine a questo grave errore. Gli investimenti strutturali non sono lampade votive di un cimitero che si possono accendere e spegnere a seconda del periodo dell’anno, o in relazione al dolore del momento.
Per quel poco che rappresento garantisco che nel futuro quando competerà di nuovo al Centrosinista governare l’Abruzzo, qualsiasi finanziamento ottenuto dalla Giunta Marsilio sarà lasciato in pace sino alla realizzazione dell’obiettivo per il quale è stato concesso, riconoscendo che la continuità amministrativa è un valore dell’ ordinamento amministrativo, mentre va messa al bando la lotta permanente delle parti che arrivi a demolire interventi di evidente interesse pubblico, che non possono subire disavventure rovinose solo per antipatia politica nei confronti delle bestie da soma che ci hanno lavorato.
Luciano D’Alfonso